SOMARI D’ITALIA. ARRIVIAMO ALL’UNIVERSITÀ SENZA SAPERE SCRIVERE CORRETTAMENTE IN ITALIANO.

SOMARI D’ITALIA. ARRIVIAMO ALL’UNIVERSITÀ SENZA SAPERE SCRIVERE CORRETTAMENTE IN ITALIANO.

Tesi di laurea da correggere con la matita rossoblu. Drammatico appello di 600 docenti a Governo e Parlamento: occorre un piano d’emergenza nazionale. Stiamo perdendo lessico, ortografia, sintassi.

Il congiuntivo non c’entra. Quello se la passa sostanzialmente bene anche se lo si maltratta un po’ in determinati contesti comunicativi. In Italia sta meglio rispetto a altre lingue europee che lo hanno sostanzialmente perso. Gli svarioni sono ben altri, si parla di errori appena tollerabili in terza elementare. E il paradosso è che mai, nella storia dell’uomo, si è scritto così tanto su ogni tipo di supporto.

Secondo l’ancora recente rapporto sulle nostre competenze linguistiche di Tullio De Mauro, due milioni di italiani sono analfabeti totali, 13 milioni sono semianalfabeti, sanno cioè scrivere il loro nome e fare qualche somma e sottrazione, altri 13 milioni hanno perso un uso fluido della lettura e della scrittura. 2+13+13=28 milioni di italiani, la metà della popolazione adulta, sotto la soglia di alfabetizzazione.

Non  meno scoraggiante il rapporto Ocse che conferma come il 48 per cento di noi, sebbene in grado di leggere, scrivere, e discutere sui social non è in grado di comprendere la complessità della realtà se non per ciò che cade sotto la propria esperienza diretta. Analfabetismo funzionale. Ancora: solo un italiano su tre sa mettere a fuoco un discorso o un articolo di giornale. Un ragazzo su due, nonostante la scuola dell’obbligo, arriva a diciassette anni senza avere mai letto un libro.

Siamo il Paese occidentale nel quale i ragazzi passano il maggior numero di ore a scuola. Nonostante ciò nei test Pisa che misurano le competenze dei quindicenni di mezzo mondo, se recuperiamo posizioni nelle materie scientifiche rispetto agli anni scorsi continuiamo a andare molto male proprio in italiano.

“L’importante è comunicare” hanno sostenuto generazioni di insegnanti, dagli anni settanta in poi, privilegiando altri aspetti dell’apprendimento, e ora ne paghiamo le conseguenze se in tutti gli atenei italiani suona il campanello d’allarme. Qui non è questione di “a me mi” e dell’inevitabile invasione degli anglicismi. La lingua si evolve, registra nuove parole e ne seppellisce altre, depenalizza errori considerati gravi in passato e arriva a concederti di cominciare una frase con E o con Ma. Ma che uno studente universitario non sia in grado di usare correttamente la parola “penultimo”, come  citato da un professore in una intervista, impone interventi urgenti.

Educazione di qualità e azzeramento dell’analfabetismo sono uno dei diciassette obiettivi stabiliti dalle Nazioni Unite per l’anno 2030. Il ministro dell’istruzione ha stanziato proprio nei giorni scorsi 830 milioni per le scuole che elaboreranno progetti specifici sullo sviluppo sostenibile e anche su questo fronte. La palla passa ora a presidi e insegnanti.